“Aspetto che le onde si calmino, che il mare diventi buono. In venti ore, al massimo, dalla Libia si arriva sulle coste italiane”. Batha ha 27 anni, è originario di Asmara, la capitale dell’Eritrea, Paese dalla dittatura militare tra le più repressive dell’Africa. È arrivato ad Addis Ababa, in Etiopia, due anni fa, senza documenti, e in primavera vorrebbe attraversare il Mediterraneo. “So bene quali rischi corro: le barche sono malmesse e i trafficanti senza scrupoli, ma non ho paura, voglio una vita migliore”. Anche Naizghi, suo coetaneo, è in attesa di tentare la via del mare. Vorrebbe arrivare in Gran Bretagna, per lavorare part time e studiare ingegneria. È ad Addis Abeba da otto mesi e vive con il nipote di secondo grado, Muse, di 14 anni. Abitano con altri sei eritrei in un bilocale di 45 metri quadri. Muse ha frequenti crisi ipoglicemiche dovuta al diabete mal curato e non può andare a scuola perché è senza documenti. “Sono scappato da un campo rifugiati al confine, non avevo le medicine, ho rischiato di morire. Ora non so che ne sarà di me”. Piange e scongiura di essere portato in Europa.
Prima di attraversare il deserto del Sudan e arrivare sulla costa libica, per affrontare quel mare dove molti perdono la vita, come è successo nei recenti disastri al largo delle coste di Lampedusa, i profughi eritrei passano per l’Etiopia, che ospita il più alto numero di rifugiati in Africa (660mila, di cui 130mila eritrei, secondo le stime delle Nazioni Unite). Scappano da una terra infernale, sanguinaria, dove il servizio militare è obbligatorio e senza fine per gran parte della popolazione, incluse le donne e gli anziani, con una paga mensile di circa trenta euro (da tassare). Come denuncia Amnesty International, chi si rifiuta di lavorare per lo stato, viene arrestato e detenuto – a volte a tempo indeterminato – “in condizioni agghiaccianti”, spesso in celle sotterranee o in container per la navigazione. Un destino che attende anche chi deve tornare in Eritrea, se la domanda d’asilo viene respinta.
Dopo aver passato la frontiera, rischiando di essere fucilati dai militari eritrei al confine, i profughi finiscono nei campi di accoglienza etiopi. Sotto i tendoni sono salvi, ma per le alte temperature e il cibo razionato, faticano a resistere. Dopo un periodo che va da poche settimane a diversi mesi, molti si spostano ad Addis Abeba. La capitale etiope sta crescendo a ritmo serrato, sorprendente per una città africana: compreso l’hinterland conta 4,5 milioni di abitanti che, secondo alcune previsioni, potrebbero arrivare a 8,1 milioni nel 2040. L’inaugurazione della metropolitana di superficie, lo scorso settembre, la prima nell’Africa subsahariana, è uno dei segni visibili della trasformazione in atto, uno sviluppo repentino che ricorda quello dei Paesi dell’Asia dell’Est. Qui i profughi eritrei restano anche per anni, cercando di mettere da parte i soldi per proseguire il viaggio con i trafficanti, che può costare fino a 4mila euro, oppure aspettano il visto e il via libera per i ricongiungimenti familiari – sempre più difficili, dopo la stretta di Svezia e Danimarca – con parenti che vivono in Europa e in Canada.
Il reportage è stato realizzato nel 2016. Le foto sono state pubblicate da El País, Al Jazeera, Pagina 99 e Azione.